Era da tanto che con Martina si parlava di fare un trekking sulle Alpi Apuane. Dopo tanto parlare il weekend fu alfin fissato, il piano di battaglia pure. Sarei partita il 9 luglio da Pisa per passare la notte a casa sua, nel Camaiorese. Il mattino successivo, sua madre ci avrebbe portato di buon’ora in macchina a Campo Cecina, sopra Carrara, e da lì saremmo partite per compiere in tre giorni l’Alta Via delle Alpi Apuane, ossia la traversata completa da Nordovest a Sudest di queste splendide e impervie montagne toscane, dal Monte Sagro fino a Casoli. Alla fine siamo riuscite a realizzare solo una parte del programma: il maltempo ci ha bloccate alle pendici della Pania della Croce costringendoci a deviare per Levigliani e a farci recuperare in macchina, con un giorno d’anticipo, dalla mamma di Martina. Ma già stiamo tramando per ripartire quanto prima, e finire quanto abbiamo cominciato…
Sabato 10 luglio 2010 (Campo Cecina – Passo Tambura)
Partiamo prestissimo da Camaiore e alle ore 8.30 la mamma di Martina ci lascia a Campo Cecina (1345 m), nel grande spiazzo polveroso adiacente alle cave da cui si attacca il sentiero 173, che aggirando il monte Sagro da N/O porta in direzione della Capanna Garnerone. Ultimi controlli al materiale, allacciatura delle scarpe di rito, un saluto alla mamma e finalmente si parte!
Dopo una mezz’ora di ascesa tranquilla raggiungiamo un bivio che ci lascia perplesse. A sinistra è indicata solo la vetta del Sagro, a destra solo il sentiero 172: il nostro sentiero, il 173, sembra scomparso nel nulla. Un po’ incerte tentiamo il 172, solo per infrattarci in un impossibile pratone pieno di cardi e di buchi nascosti che scende decisamente troppo di quota, e per giunta sul versante sbagliato. Allora torniamo indietro e imbocchiano il sentiero blu che porta in vetta; ma a meno di cento metri dalla cima del Sagro (1749 m), voltandoci, scorgiamo un paio di centinaia di metri più in basso la traccia del sentiero che avremmo dovuto prendere! Scendiamo quindi velocemente per una variante assai scoscesa che ci ributta sul 173 e finalmente riusciamo a prendere il sentiero giusto, senza capire peraltro quand’è che ce lo siamo perso. Due ore sono passate così invano e dobbiamo ricominciare tutto daccapo… Il sentiero 173 aggira il Sagro mantenendosi basso di quota (1400-1500 metri) e offrendo una bellissima vista sul Monte Borla. Alcuni tratti sono ripidi, rocciosi e abbastanza esposti, per cui sono stati attrezzati con cavi di ferro. Dopo aver superato questa sezione un po’ più impegnativa si penetra in un’incredibile faggeta attraversata da ruscelli, che scende dolcemente verso la Capanna Garnerone.
Ancora una volta perdiamo una deviazione chiave: non intendevamo passare dalla Capanna Garnerone (1260 m), ma inspiegabilmente eccoci qua, a tu per tu con un carrarino del CAI che per lo meno ci conforta sulla bontà della strada che stiamo percorrendo. Mentre riempiamo le borracce e ci bagniamo i capelli alla freschissima fonte, il carrarino ci dà qualche dritta su quello che ci aspetta e ci predice ancora quattro-cinque ore di strada per la nostra meta serale, il Passo Tambura. Il tempo di inghiottire un panino e siamo di nuovo in marcia verso la cosiddetta “finestra del Grondilice“. All’inizio il sentiero sale dolcemente attraverso il bosco e per splendidi prati verdi. Dopo questo primo tratto facile bisogna inerpicarsi per roccette molto ripide e molto esposte. Con i nostri zaini pesanti più di dieci chili non è davvero il massimo della vita… regola numero 1: guarda bene dove metti i piedi e soprattutto, non guardare mai giù!
Quando giungiamo in cima, estenuate e ustionate dal riverbero del sole sul candido calcare apuano, ci rendiamo conto di essere molto più in alto di quanto pensassimo: la “finestra” altro non è infatti che l’antecima del Grondilice, a meno di cinquanta metri dalla vetta (1805 m). Da lì basterebbero venti minuti per arrivare in cima, ma l’ascesa compiuta fin qui è già stata abbastanza faticosa e rischiosa, e ci resta ancora un mucchio di strada da fare.
La discesa dal Grondilice è faticosa come la salita, tutta per roccette poco rassicuranti. Lungo la strada incontriamo, dopo cinque ore di cammino, i primi esseri umani (salvo il carrarino della Capanna Garnerone): due speleologi al lavoro. Incontriamo anche un sacco di tane di ghiro, il crepaccio di accesso ad una grotta da cui si alza un vento gelido e persino un nevaio! Dopo un po’ giungiamo al rifugio Orto di Donna, dove ci concediamo una breve sosta, un Gatorade ghiacciato e qualche chiacchiera con le gentilissime ragazze che lo gestiscono. Sul retro del rifugio un solitario si autoassicura sulla piccola falesia: il fatto che in questo momento non provi nessuna invidia per lui è un chiaro indizio della mia stanchezza! Seguendo le precisissime indicazioni delle ragazze del rifugio, seguiamo il sentiero attraverso una breve pietraia; poi, costeggiando le pendici del Monte Cavallo e del monte Contrario (impressionanti placconate calcaree nel bel mezzo di un’immensa distesa d’erba) oltrapassiamo il bivacco K2 dirigendoci al passo della Focolaccia.
È pomeriggio inoltrato, l’effetto del Gatorade svanisce pian piano e le mie gambe non reggono più… sto per dare forfait e proporre l’improponibile (piantare la tenda lì, nel bel mezzo del nulla, senza neppure una fonte a cui riempire le borracce) quand’ecco che finalmente appare in lontananza una cava: siamo finalmente arrivate al passo della Focolaccia, dove si attacca l’ascesa della Tambura, l’ultimo monte che ci resta da superare oggi. Con quali energie davvero non lo so. Per non pensare alla stanchezza seguo la tecnica del “un passo dopo l’altro”, ma il dolore ai piedi, alle ginocchia, alla schiena massacrata dallo zaino è veramente insopportabile. Ci inerpichiamo piano piano lungo la cresta della Tambura, lottando contro le vertigini e contro il peso dello zaino che ci fa oscillare e perdere l’equilibrio. In basso, dietro di noi, si vede il rifugio Aronte (che ha l’aria molto chiusa), il più antico rifugio delle Alpi Apuane; sulle pendici del monte pascolano le capre…
Ho sentito dire che il panorama dalla cima della Tambura (1890 m) è spettacolare; purtroppo quando la raggiungiamo noi la vetta è avvolta da nuvole così spesse che non si vede a un palmo dal naso. Niente foto quindi (nemmeno alla croce, che su questa montagna stranamente non c’è) ma discesa immediata per roccette spezzagambe fino al passo Tambura (1620 m) da dove telefoniamo al vicino rifugio Conti per sapere dove si trova la località Acquafredda, che il Funk, un esperto alpinista amico di Martina, ci ha segnalato come un ottimo posto per bivaccare.
Scopriamo con piacere che siamo già ad Acquafredda – un pratone proprio sotto il passo, tra i pascoli delle capre che guardavo con invidia dalla cresta della Tambura. Troviamo uno spiazzo perfetto per piantare la tenda e individuiamo la famigerata fonte che stavamo disperatamente cercando: un tubo di gomma da cui fuoriesce acqua potabile (fredda gelata!) proprio di fianco agli abbeveratoi degli animali. Con le ultime energie della giornata piantiamo la tenda Quick che ci ha prestato Enrico (la mia, da 3+1 posti, sarebbe stata troppo pesante e ingombrante per questo trekking), ci diamo una lavata e tiriamo fuori dagli zaini posate e gavette per rimpinzarci di frutta, pomodori, tonno, fagioli, piselli e chi più ne ha più ne metta… tutto quello che si ficca nello stomaco stasera è peso in meno nello zaino di domani! Come bevanda, una pinta di Polase per reintegrare tutti i sali persi oggi: a giudicare da quanto sono bagnati i miei vestiti, avrò disperso almeno due o tre litri in puro sudore.
Una volta satolle mettiamo tutti i rifiuti in un sacchetto che sistemiamo a debita distanza dalla tenda, per evitare visite notturne di animali; domattina lo recupereremo per andarlo a gettare giù in paese, ad Arni. Dopo di che aspettiamo sdraiate sull’erba il calar delle tenebre, osservando il microcosmo degli insetti alla luce della frontale e ascoltando il rumore delle pietre smosse dai mufloni lungo le pendici della Tambura. La pace è totale: quando anche le capre se ne vanno a dormire restiamo solo noi, le lucciole e un milione di stelle tra le creste delle montagne che cingono il nostro bivacco.
Domenica 11 luglio 2010 (Passo Tambura – Levigliani)
La notte passa tranquilla: il bivacco è davvero ben scelto, in un punto riparato dal vento e dall’umidità, e riusciamo a riposarci senza problemi. Ma al riveglio, i dolori del giorno prima non sono affatto scomparsi, anzi! Mi sento come se mi avessero passata sotto una schiacciasassi. Mentre le prime luci del mattino fanno scintillare in lontananza le acque del lago di Vagli, noi schizziamo fuori dalla tenda, ci concediamo una rapida colazione (pane, marmellata e succo di frutta: niente caffè, purtroppo, perché per restare leggere non abbiamo portato il fornelletto), rifacciamo velocemente tenda e zaini e ci rimettiamo in cammino. Scendiamo per la comoda Via Vandelli (che un tempo era la via di comunicazione tra Carrara e Modena) verso Arnetola: dopo un paio di chilometri ci troviamo al bivio di Cava Borella, da dove proseguiamo a destra, in direzione passo Sella (1500 m). Il sentiero è gradevolissimo: attraversa grandi pratoni pieni di fiori e zolle fresche, morbidissime, che danno un po’ di tregua al dolor di piedi.
A Passo Sella troviamo tre o quattro esseri umani intenti a rilassarsi al sole: se ieri abbiamo camminato in completa solitudine, a tu per tu con la wilderness, oggi sarà tutta un’altra storia, un po’ perché è domenica, un po’ perché stiamo entrando nella parte più frequentata delle Apuane.
Per scendere dal pratone di Passo Sella alla sottostante strada di cava che porta al paese di Arni dobbiamo superare un pendio molto ripido che, per non rischiare, decidiamo di fare senza il peso degli zaini: quindi ci togliamo gli zaini, ficchiamo in tasca le cose più fragili, mettiamo i poveri Quechua sul bordo del pendio e via! Un bel calcione, e in men che non si dica loro sono già giù ad aspettarci. Ma il mio per un pelo non si inzacchera tutto in una pozzanghera non lontana. La strada di cava per Arni è lunga e noiosa, ma ancora più noiosi sono i tre o quattro chilometri di asfalto che dobbiamo sorbirci da Arni a Tre Fiumi, località in cui si imbocca il sentiero 138 che porta in direzione della foce di Mosceta. Poco prima di Tre Fiumi ci fermiamo in un bar pieno di ciclisti dove ci rimpinziamo di succhi di frutta e compriamo un po’ di viveri per il pranzo. Poi ci rimettiamo in cammino e cinquecentro metri dopo il bivio di Tre Fiumi (dove bisogna prendere a destra, in direzione di Pietrasanta) troviamo, ben segnalato, l’imbocco del sentiero 138. Saliamo nel bosco lungo un bel sentiero evidente che però s’interrompe tutt’a un tratto: alcuni alberi sono caduti proprio sul suo tracciato e il sentiero si è trasformato in un ravaneto di radici, rami rotti e ortiche. Purtroppo non c’è alcuna alternativa: occorre per forza passare di qui. Con le gambe martoriate dalle ortiche e qualche bestemmia in bocca proseguiamo il cammino superando il rifugio La Quiete e raggiungendo una piccola radura lungo un ruscello. C’è anche una fontana, perciò decidiamo di fermarci qui a ristorarci un attimo, dando un po’ di tregua alle nostre schiene e soprattutto ai nostri stomaci che esigono cibo. Io mi spazzolo due succhi di frutta, il panino al crudo che ho comprato al bar e qualche albicocca secca; Martina come al solito fa la vegeteriana e si ingolla una quantità imprecisata di frutta fresca. Una borraccia di Supradin fa il resto e dopo qualche minuto siamo pronte a ripartire, anche perché l’improvviso assalto di un nugolo di api ci induce a levarci presto dai piedi.
L’arrivo, di lì a poco, ai prati di Puntato ci lascia di stucco: abituate alla solitudine di ieri, siamo un po’ disorientate dalla quantità di gente che si trova qui. Tende dappertutto, bambini che incidono i loro nomi sui tronchi degli alberi, odore di salsicce grigliate e atmosfera da sagra: scappiamo a gambe levate, non prima però di aver chiesto conferma della strada da seguire, perché qui il sentiero 138 si confonde per un tratto con l’11 e bisogna stare attenti a dove si va. Raggiunta la chiesa giriamo subito a destra e dopo un buon chilometro prendiamo di nuovo a destra per una deviazione ben segnalata. Ora che siamo tranquille di essere sul sentiero giusto, ci si mette il meteo a farci preoccupare: in lontananza, infatti, si ode rumore di tuoni… una mezz’ora dopo si scatena il finimondo: tuoni e fulmini si fanno sempre più vicini e comincia a piovere. Soltanto il fitto bosco nel quale camminiamo ci protegge da una bella doccia indesiderata. Affrettiamo il passo verso il rifugio Del Freo, alla foce di Mosceta: da lì, il nostro piano prevedrebbe l’ascesa della Pania della Croce, la discesa sul versante opposto attraverso il Canalone dell’Inferno e il pernottamento al rifugio Rossi. Ma non appena la Pania, maestosa, spunta dagli alberi di fronte a noi, ci è subito chiaro che il nostro piano non è realizzabile: il monte è avvolto da un fitto strato di nuvole nere, accese di quando in quando dalla luce dei lampi.
Anche Stefano, il gestore del rifugio Del Freo, ci sconsiglia vivamente di tentarne l’ascesa stasera. Restiamo un’ora al rifugio, bevendo caffè, contando le vesciche e osservando con attenzione l’evolversi del meteo sulla Pania, con la speranza che il tempo si metta al meglio e che ci lasci quelle due ore e mezza-tre necessarie a compiere la nostra ascesa e discesa. Impensabile dormire al Del Freo e partire domattina per la Pania: domani sera dovremo infatti essere al rifugio Forte dei Marmi, e la tappa diventerebbe davvero troppo lunga se partissimo da Mosceta invece che dal Rossi. Delle due l’una: o saliamo stasera la Pania, o rinunciamo per stavolta al completamento dell’Alta Via. Due tizi che ci vedono indecise ci incoraggiano a provarci comunque, ma il monito di Stefano ci rimbomba nelle orecchie e non vogliamo cacciarci nei guai: quante volte ci è stato detto che la prima virtù di un alpinista è saper rinunciare, quando è necessario, a raggiungere la vetta! E allora il nostro trekking s’interrompe qui, a Foce di Mosceta: la cima della Pania, l’impegnativa Costa Pulita e il lungo sentiero che scende verso il rifugio Forte dei Marmi costeggiando il Forato, il Procinto e il Nona restano dunque ancora tutti da fare.
Discutendo sulle date in cui potremo tornare a dare l’assalto all’ultima tappa, non ci resta che scendere a malincuore verso il paese di Levigliani attaverso le “voltoline” (duro e ripido sentiero roccioso che dà il colpo di grazia alle nostre gambe stanche) e ancora per un lungo tratto d’asfalto che porta dall’Antro del Corchia giù in paese, dove ci aspetta in macchina la mamma di Martina.